E’
carnevale, ma io sono qui come persona e non come maschera.
Maschera e
“persona” – attraverso una radice etrusca (phersu) – sembrano essere la stessa
cosa, è la stessa parola. E la cosa ci complica non poco la faccenda, anche nel
caso – nel presentarmi – volessi
levarmela.
A chi mi
rimproverò, a pochi giorni dal varo della giunta municipale, di essere “una
figurina sbiadita”, moglie o parente di qualche uomo importante (e proprio non
è il mio caso), ricordai mestamente (ma grazie a una battutaccia di Orson
Welles) le tante maschere, le tante persone che una persona mediamente è. Italiana
e francese, traduttrice, docente precaria all’Unical, come tanti, con
scarsissime possibilità di carriera, madre di una vispa bimbetta di sei anni,
etc.
Da qualche
mese ho dunque delega a occuparmi di questioni educative e scolastiche, della
città a misura di bambino, della formazione del senso civico e della
cittadinanza attiva. Sottolineo “delega”, che è parola nobile e pregnante. L’assessore
è un delegato, riceve un mandato (Derrida lo definì “mandato ottico”, ma è
anche acustico e comunque multisensoriale), da qualcun altro. Ad esempio, un
sindaco. Questa riflessione introduce
una ulteriore complicazione in termini di defilé, di sovrapposizione di
maschere. In pubblico, nell’agire amministrativo, sono maschera di un sindaco,
parte di una giunta. Tutto ciò non mi espropria di nulla, visto il legame
fiduciario, ma sto per qualcun altro in uno scivolamento metonimico che è la
persona “assessore”.
La politica
più in generale è centrata sulla delega. E vedete cosa succede con un
parlamento di nominati buona parte dei quali non risponde né agli elettori né a
chi lo ha nominato o delegato.
Sarò forse
un assessore tecnico? Né tecnico, né politico, ho conosciuto il sindaco nel momento
del conferimento della delega, sulla base di un curriculum che spazia nel
precariato scolastico e universitario e di un suggerimento di chi mi conosce da
tempo. Responsabilmente, a queste due persone non potrò far fare brutte figure.
Delegata e
responsabile, dunque.
Per prima
cosa ho registrato l’emergenza educativa. E non solo nelle scuole. Fare la fila
è un concetto sconosciuto nei nostri umani cortili. I sacchetti fuori dai
cassonetti, le cacche dei cani mai raccolte, cicche cartacce buttate dal
finestrino, la strada è evidentemente terra di nessuno. O di qualcuno, che si
crede un dominatore dell’universo, che impegna inutilmente gli incroci e che
non fa passare nemmeno il presidente della Repubblica, che si ferma in seconda
e terza fila o ti affianca per profferire quel tristemente celebre “ohi frà
chiracosa tuttappò”.
Una strada
tutta in salita per chi ha delega alla formazione del senso civico. Ma era solo
l’aperitivo.
Uno dei
primi atti che ho dovuto affrontare è stato l’accorpamento degli istituti
scolastici. Si trattava di passare dagli attuali 10 istituti a 5 o 6 istituti
comprensivi con una soglia minima di 1000 studenti.
Un
discutibile lascito del ministro Gelmini, un provvedimento di razionalizzazione
con ricadute sulle direzioni didattiche e sul personale Ata, non certo sugli alunni.
Liberi di iscriversi, di essere iscritti nella scuola che meglio aggrada. Cosa
non è successo! La mascherata della continuità educativa, poiché non aveva
senso accorpare due istituti – per quanto vicini – di 1000 e 600 ragazzi, ha
fatto sì che si raccogliessero firme di domenica in una scuola
straordinariamente aperta.
Ho scoperto
così l’aggressività, il gregarismo e il bullismo di un folto gruppo di genitori
capitanato da un direttore didattico con qualche serio problema caratteriale.
Scenario
analogo tra gli strati più popolari: i
facinorosi e gli arroganti sono presenti in tutte le classi.
C’è una
scuola nelle vicinanze della palestra dei Casali, che non è una scuola, un
seminterrato umido e triste per il quale l’amministrazione paga pure un canone
di locazione. A pochi metri, dall’altra parte del fiume, sorge invece il plesso
più bello della città. Appena restaurato, luminoso, attrezzato, bellissimo. …
Come
assessorato abbiamo in questa direzione individuato alcune linee guida per
affrontare un’emergenza educativa che si registra dunque a tutti i livelli, e
va ben al di là del fenomeno della dispersione scolastica: cultura dell’ascolto
e del riciclo, cultura dell’attesa e del senso civico, cultura dell’adozione e
della donazione che corrispondono a tre blog che intendono porsi come strumento
di dialogo e di confronto con il mondo della scuola, con le famiglie, con i
cittadini tutti
C’è poi un
quarto blog, dedicato all’emergenza educativa in senso stretto e che presenta un
progetto legato all’ascolto, che ha l’ascolto come base e come fine.
Non sarà il Mozambico, la
Somalia, l’Etiopia o il Bangladesh, ma il Mezzogiorno d’Italia registra una
diffusa emergenza educativa. Ciò che impietosamente fotografava lo studio
Ambrosetti nel 2008 ("Il sistema educativo in Italia: sei proposte per
contrastare l'emergenza", Forum The European House-Ambrosetti, Villa
d'Este, settembre 2008), conserva attualità e crucialità per gli operatori
della scuola che si muovono in un orizzonte meridionale.
“Lo scarso rispetto delle regole
di convivenza civile, l'affievolirsi della fiducia nella giustizia e nelle
istituzioni, l'aggressività verso le forze dell'ordine, le difficoltà della
scuola nel valorizzare le attitudini degli studenti, il disvalore spesso
trasmesso dai media sono alcuni sintomi che il nostro Paese evidenzia e che
fanno echeggiare l'idea di una grave emergenza educativa e formativa,
contribuendo alla perdita di terreno nei confronti degli altri Paesi avanzati e
di quelli emergenti”. Magra consolazione il dato sull’abbandono secondario che
vede protagonista il Nord (ad esempio Lecco – dopo i due anni di superiori –
registra un abbandono del 20,9% , Cosenza del 8,1%), col record negativo degli
istituti professionali di Novara col 46,8 %. Pericoloso interpretare il dato
calabrese sulla dispersione scolastica come incoraggiante. Se è vero che le
criticità dell’evasione scolastica sono limitate alle comunità Rom, non si può
prescindere dal dato regionale dell’analfabetismo mai sradicato e della
disoccupazione, vero e proprio incubatore per la microcriminalità e la
criminalità organizzata.
Il discrimine non sembra più
essere tra regioni del Nord e del Sud ma tra le diverse aree di una stessa
regione o tra i vari territori di una metropoli. Il che pone maggiormente un
problema legato alle migrazioni, di multiculturalità e integrazione tra etnie,
tra rigurgiti razzisti e problemi di compatibilità culturale, con una radicale
interrogazione sull’aspetto qualitativo del processo educativo. Questioni di
civiltà dunque, di civismo e di senso della cittadinanza, di senso della
giustizia e dello Stato, di senso del dovere, di rispetto delle regole, di
pregiudizi e di maleducazione. “Senza precisi punti di riferimento, - continua
il rapporto dello studio Ambrosetti - molti individui si rifugiano in un
esasperato individualismo, si costruiscono le proprie regole e le proprie
giustificazioni morali”.
Una deriva che si somma a un
crescendo di debiti formativi che – una volta risucchiati nella formazione
universitaria – finisce col porre più di una perplessità sul valore legale del
titolo di studio.
Per un tentativo di uscita da
questa “spirale viziosa”, Tool set si
pone come momento teorico-pratico interdisciplinare, come luogo di
testimonianza e di appuntamento negli anni a venire.
In questa prima edizione,
inevitabili le condizioni materiali come punto di partenza, una riflessione
sulla fisica dell’ascolto, vale a dire sulle condizioni (dis)ergonomiche della
comunicazione verbale. Stesso discorso varrebbe sull’illuminotecnica: le aule,
le classi, sono forse luoghi pensati per favorire l’apprendimento? Nel migliore
dei casi si bada al profilo acustico dei materiali normalmente impiegati
nell’edilizia per la realizzazione di pareti esterne, pareti divisorie,
finestrature, porte, soffitti, al fine di isolare l’ambiente dalle fonti di
rumore esterno. Nessun riguardo per l’ascolto in classe, con aule rigorosamente
parallele, piene di superfici riflettenti, costruite con materiali fonoisolanti
(ad esempio un muro massiccio con intonaco liscio) ma completamente prive di
supporti fonoassorbenti (ad esempio, tende, materiali porosi, fibrosi,
espansi), con pochi trascurabili arredi e oggetti alle pareti, immancabilmente
posizionati senza distanziatori e intercapedini d’aria.
Così i bambini gridano e alle
maestre viene il mal di testa, gli adolescenti urlano e minacciano e gli
insegnanti rischiano il burn out.
I bambini
gridano, le aule amplificano il rumore e alle maestre viene il mal di testa.
L'ipotesi di lavoro è dunque la
seguente: (passo 1) una elementare introduzione all’ingegneria acustica
applicata all’edilizia scolastica; (passo 2) una pratica di riciclo creativo -
che riutilizzi imballi, materiali porosi e cartoni di grande formato -
finalizzata alla realizzazione di oggetti funzionali, sul modello del diffusore
a resto quadratico (o di Schroeder) e dei risuonatori di Helmholtz; (passo 3)
introduzione all'elaborazione audio-psico-fonologica di Alfred Tomatis.
Muovendo dall’elaborazione di Alfred Tomatis, l’otorino che dedicò le sue
ricerche ai rapporti tra orecchio e cervello, il primo che utilizzò Mozart come
una sorta di equalizzazione preliminare all’ascolto e all’apprendimento, in
particolare delle lingue straniere. L’assunto di base dell’autore del metodo
audio-psico-fonologico è il seguente: ciascuno di noi nasce in un particolare
ambiente sonoro, che condiziona il diaframma selettivo dell'udito. Si tratta di
una banda uditiva propria della lingua alla quale si appartiene. Per esempio,
gli inglesi parlano tra i 2.000 e i 12.000 Hz, i francesi tra gli 800 e i 1.800
Hz, gli italiani fra i 2.000 e i 4.000 Hz. Di qui la difficoltà di entrare
nelle altre bande uditive. “Se la lingua che vogliamo imparare usasse i fonemi
della nostra e possedesse lo stesso ritmo, non avremmo problemi”. Le ricadute
sono molteplici: da una diversa interpretazione dei disturbi legati alla
scolarità (le difficoltà di lettura rimandano sempre a difficoltà d’ascolto),
ai disturbi posturali e dell’età evolutiva.
Su un binario parallelo le teorie e la pratica di Edwin E. Gordon,
conosciute come Music Learning Theory, un modo per sviluppare l’intelligenza
musicale, per crescere con la musica, a partire – con una sintomatica
convergenza con Tomatis – dall’età prenatale.
E poi l’esperienza del maestro ignorante di Jacotot (giusta l’associazione
con quella di Don Milani e – se vogliamo – con quella di Fernand Deligny coi
bimbi autistici), le mille orchestrine venezuelane di Abreu, i maestri di
strada napoletani e molto altro.
In un approccio apparentemente
eterodosso e laterale, che si rivela invece scientifico e materiale.
E proprio dalle condizioni
materiali dell’ascolto muove la prima edizione di toolset, con uno
screening audiologico che è partito in quattro istituti primari della città,
nei quartieri in cui si registrano maggiori difficoltà di apprendimento e tassi
di abbandono (Spirito Santo, Via Popilia, Via De Rada e via Milelli).
(da una conversazione nella sede del dipartimento Università e Cultura
di FLI,
Cosenza 21 febbraio 2012)