Intanto, essere
qui, per me è un dono.
Ringrazio l’amico Salvatore Magarò per l’invito, per la fiducia dimostratami sempre e in particolare oggi dandomi l’opportunità di essere qui e di incontrare nuovamente Don Giacomo. Dicevo che per me è un dono, ma spero che sia anche uno scambio, nel senso di un’esperienza dalla quale i diversi attori possano uscire arricchiti.
Ringrazio l’amico Salvatore Magarò per l’invito, per la fiducia dimostratami sempre e in particolare oggi dandomi l’opportunità di essere qui e di incontrare nuovamente Don Giacomo. Dicevo che per me è un dono, ma spero che sia anche uno scambio, nel senso di un’esperienza dalla quale i diversi attori possano uscire arricchiti.
Dono e scambio
sono due termini apparentemente contraddittori. Il primo rinvierebbe alla
gratuità, il secondo al profitto. Il primo è percepito come governato dalla
legge morale, il secondo dalla legge del mercato. Attraverso precisi
riferimenti teorici (filosofici, sociologici, di teoria economica e in piccola
parte antropologici) i due autori dialogano attorno ai concetti e alle
implicazioni cui rimandano questi due termini. Il dialogo si inscena in un
avvicendarsi di riflessioni: dieci brevi capitoli (anche la brevitas in questo
caso è un dono) in cui si alternano la penna di Dario Antiseri e quella di Don
Panizza (non pensiate però che il registro di Don Giacomo sia teoricamente meno
denso di quello di Antiseri: i riferimenti vanno da Aristotele, a Marcel Mauss,
a Edgar Morin…).
Naturalmente,
nel corso della riflessione, la prospettiva dono/scambio per come accennata,
viene sfumata, e ci si inizia ad interrogare su un suo possibile rovesciamento:
solidarietà generata dal benessere prodotto dallo scambio economico e, d’altro
canto, non assoluta gratuità del dono.
La nascita e lo svilupparsi degli scambi commerciali vanno di pari passo
con lo scambio e la circolazione delle idee. Si tratterebbe di un effetto
inintenzionale e Dario Antiseri considera che, così come l’Occidente ha tratto
effetti benefici da quella liberazione delle menti ricevuta dalla Grecia,
l’attuale globalizzazione economica potrebbe avere effetti positivi, in
particolare tramite la globalizzazione dell’informazione.
Su questo punto
Don Giacomo introduce un altro termine chiave, che è quello di fiducia (non a caso all’inizio ho usato
questo termine nel ringraziare Magarò). Le relazioni commerciali non avrebbero
e non genererebbero scambio di idee e quindi libertà se non poggiassero su
questo elemento essenziale. Parlando dei mercati, in particolare nel sud,
Panizza si sofferma sulla prossemica, sui “gesti e gli approcci fiduciosi
scambiati tra persone sconosciute fino al momento prima”. Utilizzare il
registro della fiducia, anche negli scambi commerciali, “porta a mettersi nei
panni dell’altro”, “porta a riconoscerlo come persona nella sua individualità e
nella sua alterità”.
In questa
esperienza da assessore ho individuato nella sfiducia (verso la pubblica
amministrazione che rappresento, in questo caso) una questione cruciale, tanto
da aver dedicato un blog a questo tema: difficilealfabeto.blogspot.com.
“Fiducia, questo difficile alfabeto” è un verso di Hilde Domin, poetessa
tedesca. Permettetemi una parentesi, è importante perché sembra confermare
quanto dice Don Giacomo. Come sapete, le
pubbliche amministrazioni, e in particolare i comuni, vivono un periodo molto
difficile dal punto di vista economico: taglio dei trasferimenti statali, patto
di stabilità, determinano spesso l’impossibilità di pagare imprese e servizi
erogati. Tra coloro che soffrono di questa situazione ci sono, a Cosenza, le
cooperative che gestiscono i servizi all’infanzia e, tra questi, la città dei
ragazzi, i cui dipendenti hanno accumulato un grande ritardo nel pagamento
degli stipendi. Abbiamo avuto diversi incontri con i sindacati, in seguito ai
quali abbiamo proposto loro un piano di rientro per recuperare in un tempo
ragionevole le mensilità arretrate. Ebbene, pur riconoscendo questo piano
conforme alle richieste fatte al Comune, parte dei lavoratori non ha revocato lo sciopero, nel
timore che l’impegno preso non venga rispettato. Cioè perché non si fidano.
Ovviamente la fiducia non si può imporre. Non si può obbligare qualcuno a
fidarsi. Ciò conferma quanto dice Panizza: anche in una prospettiva di scambio, l’elemento
fiducia è essenziale.
Don Giacomo,
interrogato da Antiseri sulla questione globalizzazione dell’informazione, si
dichiara “fiducioso” davanti alle potenzialità di determinati strumenti, ma,
citando anche Papa Ratzinger, introduce la questione etica – una questione di
fiducia negli utilizzatori e nei fruitori di questi strumenti – come componente
essenziale tra i valori della società digitale.
Parto ancora
dalla questione fiducia, componente imprescindibile anche nel dono. Dicevamo
all’inizio che per il luogo comune il dono è gesto spontaneo, gratuito,
assolutamente non utilitaristico. Ma l’antropologia ci insegna che non è così.
Il dono è questo ma è anche il suo contrario. Partiamo dalla quotidianità più
spicciola: quando riceviamo un regalo (questo è vero soprattutto nelle culture
meridionali), ci sentiamo obbligati verso colui che ce lo ha fatto. Cioè non lo
riceviamo come un gesto puramente gratuito, ma ci sentiamo in dovere di
contraccambiare, alla prima occasione, con un regalo che abbia pari valore.
Siamo dunque già nella logica dello scambio. In alcune culture, in particolare
in una tribù del nord America, i Kwakiutl, che è stata oggetto di studio da
parte di antropologi come Marcel Mauss o Claude Lévi-Strauss, il donare, in
quanto sfoggio di ricchezza, diventa affermazione di potere (questa forma di
dono è stata chiamata potlatch). Donare, donare molto, significa dimostrare la
propria superiorità umiliando chi riceve il regalo, significa sfidare e ridurre
in schiavitù chi ha ricevuto il dono. In questa tribù si assiste anche a
spettacolari distruzioni di ricchezza (altra forma di potlatch) in segno di
sfida verso un altro capo.
Senza arrivare a
tali degenerazioni paradossali, si pensi anche alla carità che comunemente si
pratica. Essa ci mette in pace con la coscienza, ma – e anche su questo ci
mette in guardia Don Giacomo – ma umilia chi la riceve. Le associazioni
volontarie, spiega, “formano luoghi privilegiati del dono non quando
distribuiscono doni consolatori, ma piuttosto quando accompagnano le persone a
mettere in moto la solidarietà, la condivisione e l’accoglienza”; così facendo
“ generano e rigenerano fiducia negli abitanti del territorio”. Questo è un
tema ricorrente in Don Panizza. In “Qui ho conosciuto purgatorio, inferno e
paradiso” scrive: “Quand’anche procurassi la carrozzina a una persona con
disabilità, la prossima volta che ne avrà bisogno dovrà chiederla nuovamente a
me. Soddisfare quel diritto per lei non equivale a ricevere tout court una cosa
che le spetta, ma quel suo diritto si realizza più compiutamente quando lei
stessa ci metterà la faccia partecipando alla formulazione della richiesta,
all’iter delle pratiche (…)”.
Non bisogna
dunque confondere la solidarietà con il gesto caritatevole. Si è solidali
quando si dà voce e forza ai bisogni e ai diritti delle persone che si
assistono. Altrimenti si dà forza solo a se stessi e si ricade in una logica
utilitaristica (le associazioni di volontariato devono evitare, scrive Don
Giacomo, “di agire da lobby per se stesse”). Nella prospettiva di un
rovesciamento della prospettiva dono/scambio è interessante fare una digressione
sull’etimologia del termine solidarietà.
Esso deriva dal latino “solidum”, espressione in uso ancora oggi quando si dice
“pagare in solido” riferendosi al pagamento integrale di un debito. E’ la
stessa radice di “soldo”, una moneta creata nel IV secolo e che si voleva
stabile e forte, dunque solida. Solo durante la rivoluzione francese
“solidariété” ha assunto il significato odierno, un’accezione destinata a
significare il sentimento di fratellanza che devono provare tra loro i
cittadini di una stessa nazione, un sentimento che, appunto, deve essere
solido. La reciprocità è alla base della solidarietà e, sotto questo aspetto,
essa sembra essere l’opposto del dono comunemente inteso come pura gratuità.
Infatti, non è vero che nel dono non ci sia reciprocità: Panizza si rifà su
questo a Mauss per il quale “il dono non è una prestazione puramente gratuita,
né una produzione o uno scambio puramente a fine di lucro, ma una specie di
ibrido. Chi dona si attende un controdono”.
Incuriosisce
l’espressione contenuta nel titolo dell’ultimo capitolo: “illegalità del
bisogno”. Qui Panizza esce dal contesto teorico in cui si muove nei capitoli
precedenti e sembra non dare più spazio ad una possibilità di sintesi tra
profitto e solidarietà, quando si arriva al punto di “permettere alla nostra
economia di influenzare la nostra politica e di non permettere alla politica di
influenzare costantemente la nostra economia” (P. Dasgupta) e preferisce
passare dalla parte del “torto teorico”, quella del sacerdote di frontiera (come
spesso viene definito), collocandosi “dalla parte di poveri – o meglio degli
impoveriti, non perché essi abbiano ragione, ma perché trovo sommamente
ingiusto che il povero e sua moglie e i suoi figli vengano costretti a soffrire
la fame e lasciati senza casa”. Si esce dunque dal quadro della ragione e si
entra in quello dell’etica, di ciò che è giusto e ingiusto.
Ma questo sarà
forse il tema di un prossimo libro.
Presentazione
de Il dono e lo scambio, di Dario
Antiseri e Giacomo Panizza, Rubbettino 2012
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