Inutile dire che sono onorata di essere qui a presentare il libro di don Giacomo Panizza. Dirò subito che, come molti, non conoscevo la storia di Don Giacomo prima di vederlo a Vieni via con me. E come molti, sono rimasta colpita dalla grazia, dalla riservatezza, si può dire? Dalla timidezza: di quest’uomo che si confronta tutti i giorni con la ‘ndrangheta e che tuttavia si emoziona davanti alle telecamere. E’ l’uomo che in parte ho ritrovato nel libro che presentiamo qui oggi, quello che, commenta: p. 97 . Dico in parte, perché dall’intervista di Goffredo Fofi viene fuori anche un altro uomo, come è giusto che sia, con una grinta e una determinazione assolutamente fuori dal comune.
Dicevo che mi aveva colpito, dell’uomo che ho visto in televisione, la timidezza e la grazia. Del suo elenco, invece, mi ha colpito, per motivi assolutamente personali, soprattutto l’ultimo punto:
“Mi è piaciuta l’idea di emigrare a rovescio, di andare a conoscere limbo e inferno, purgatorio e paradiso; la mia vita con altri, altrove”.
Anche io sono emigrata al rovescio. Io sono romana di nascita, ho vissuto tanti anni a Parigi, per studio e lavoro ho vissuto a Madrid, a Trieste, finché un giorno, 13 anni fa, mi hanno proposto un contratto di insegnamento all’Università della Calabria. Ricordo che gli amici e i parenti erano titubanti, incerti se congratularsi per l’incarico o compiangermi perché comunque era in Calabria… “Brava, complimenti, certo… a Cosenza…”. Qualcuno commentò: “A Cosenza?” “Ma lì c’è la Salerno-Reggio Calabria!” e con questo aveva detto tutto.
Ma come mi piace spesso raccontare, quando sono arrivata a Cosenza, dopo tanto viaggiare, ho avuto l’impressione di essere “tornata a casa”. E da allora vivo anche io la mia vita con altri, altrove.
Ma che cos’è questo altrove?
In D’ailleurs Derrida, film dal titolo di difficile traduzione (D’altronde, d’altra parte, da altrove…) Jacques Derrida dice che
L’altrove, anche quando è molto vicino, è sempre l’al di là di un limite ma in sé, si ha l’altrove nel cuore, lo si ha nel corpo. Ed è questo che vuol dire l’altrove, l’altrove è qui, se l’altrove fosse altrove, non sarebbe un altrove.
Ecco, Don Giacomo l’altrove ce l’ha nel cuore, altrimenti non avrebbe scelto di vivere la sua vita con altri, con l’altro, direi, con il diverso, altrove.
Allo stesso modo, inferno purgatorio e paradiso che lui ha conosciuto qui – cioè altrove, ma l’altrove è qui – sono una stessa e unica cosa. In questo Panizza è spinoziano.
Il libro si divide in due parti: una prima parte, autobiografica, in cui Panizza racconta il percorso esteriore e interiore che dalla fabbrica lo ha condotto al seminario e poi a Lamezia. Diciamo una parte che guarda al passato; una seconda parte, se così si può dire, più saggistica, anche se la scrittura è sempre fresca e diretta, mai noiosa – anche qui sempre sotto forma di intervista – che guarda al futuro chiedendosi: dove va la Calabria?
E l’attraversamento di inferno, purgatorio e paradiso: - anzi, nell’ordine. purgatorio, inferno e paradiso – e questa è una domanda che vorrei porre all’autore: quest’ordine è casuale o ha un significato preciso? Ora, siccome il lettore ha sempre il vizio di interpretare e questo è un vizio italiano in particolare, tutto scolastico (adesso vorrei dire due parole sulla scuola a cui è dedicato un capitolo della seconda parte del libro), la domanda classica del professore era: “che cosa ha voluto dire l’autore?” come se dietro ogni verso di poesia, che magari era pura musicalità ci dovesse necessariamente essere chissà quale significato recondito… ecco, vi do l’interpretazione che mi piace dare di questa scelta… non distruggetemi tutto l’impianto ermeneutico. Don Giacomo sa che inferno e paradiso non esistono (così come sa che l’altrove è qui). Sa che l’impegno ad esempio nel contrasto alla mafia in senso lato – questo don Giacomo l’ha capito bene e lo evidenzia in molte parti del suo racconto: la ‘ndrangheta non è tanto e non è solo quella istituzionalizzata, per cui ci sarebbero “i buoni” e “i cattivi”, altrimenti sarebbe facile da combattere. Il problema sta piuttosto in tutto quello che c’è intorno: i vigili del fuoco che rifiutano di trasferirsi nel palazzo dei Torcasio, per paura, e la paura è facilmente comprensibile e difficilmente condannabile; quello che non paga il parcheggio innescando di fatto un meccanismo, una dinamica di potere per cui chi comanda non paga e dunque chi non paga comanda.
Il confine tra l’atteggiamento omissivo e quello mafioso è spesso labile e in questo senso lo è quello tra purgatorio, inferno e paradiso. Nelle sue analisi Panizza non è mai tranchant e pure quando lo è lascia sempre intravvedere la possibilità di un’altra possibile interpretazione: v. Mancini, p. 136.
Questa visione del mondo e delle cose è quella che Don Giacomo mette in opera nel lavoro quotidiano con i disabili, con i diversi. Mi viene in mente una celebre scena di non so più quale film di Nanni Moretti in cui lui si sforza di far capire che “Noi siamo diversi ma siamo uguali, siamo uguali ma siamo diversi” e l’unico modo che trova per farlo è urlare sempre più forte ripetendo questa frase, come se un tono di voce sempre più alto la rendesse più comprensibile. Panizza racconta soprattutto la difficoltà a trasmettere questo messaggio. Mi ha colpito a questo proposito un episodio, in cui Don Giacomo racconta che qualcuno gli aveva offerto un proiettore per guardare i film nella sede dell’associazione e lui ha rifiutato questo regalo, ovviamente offendendo chi glielo aveva offerto, perché guardate che i disabili hanno voglia di uscire e di andare al cinema come tutti gli altri e non di rimanere chiusi a guardare i film nella sede dell’associazione. Solo così si crea vera integrazione e si esce dall’ottica assistenzialistica: se io ti regalo una carrozzina, non ti sto aiutando, perché la prossima volta che ne avrai bisogno dovrai tornare da me e chiedere: noi dobbiamo creare le condizioni affinché la carrozzina sia un tuo diritto e tu non debba chiedere a questo o a quest’altro.
Dicevo che Don Giacomo Panizza sa che inferno e paradiso non esistono, ed era una provocazione. Nelle filosofie orientali esistono il nirvana e il samsara: il nirvana corrisponde a ciò che i cristiani chiamano paradiso, la salvezza; mentre il samsara è il contrario della salvezza, è la vita così com’è, promessa alla sofferenza e alla morte. Ma se si approfondisce un po’ si scopre che per i buddisti non c’è nessuna differenza tra le due cose e l’unico modo per passare dall’una all’altra è comprendere che esse sono una stessa e unica cosa: dicono: finché fai una differenza tra il samsare e il nirvana sei nel samsara. Per rimanere nella filosofia e nella tradizione occidentale giudeo-cristiana, è quello che diceva Spinoza, per questo accusato di ateismo: realtà e perfezione sono la stessa cosa, natura naturans e natura naturata sono solo due modi di un’unica sostanza, e la sostanza è Dio. E la beatitudine non è un’altra vita, ma la verità di questa vita qui. L’inferno e il paradiso sono un’unica e stessa cosa: il mondo. Per questo concludo, canonicamente, citando le ultime righe del libro. A Goffredo Fofi, che gli domanda una ragione per cui amare la Calabria o detestarla, Panizza sposta l’asse e risponde che lo ha cambiato la Calabria tutta: le sue povertà e le sue ricchezze, i suoi pericoli e le sue opportunità, i suoi schemi di pensiero espressi e quelli incomprensibili… “Da qui ho vissuto il mondo, non solo ciò che chiamano periferia”
(“Libri in sagrato”, conversazione con Giacomo Panizza, S.Pietro in Guarano, 2 agosto 2011)
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