ABC

Fiducia questo difficile alfabeto

Vertrauen, dieses schwerste ABC

Hilde Domin

giovedì 19 aprile 2012

Pongo la questione


Grazie al Mibac, al Lions Club, al Comune di Cosenza e soprattutto alle celebrazioni per il 150° dell'unità d'Italia, il vallone di Rovito (ovvero la zona che comprende il monumento ai fratelli Bandiera e quel prezioso angolo di verde che guarda lo Spirito Santo, scorcio suggestivo per inquadrare il castello Svevo) è stato di recente pulito, illuminato e attrezzato.

venerdì 6 aprile 2012

il 31 m'arzo



Certo c’è la questione dell’evaporazione del Padre.  Questa immagine, forgiata  da un celebre psicanalista francese negli anni 70, non si riferisce semplicemente alla crisi d‘identità dei padri reali di cui si occupano più o meno recentemente la sociologia e la psicologia. Piuttosto fa riferimento alla perdita di  centro, alla  caduta dell‘Uno, alla decapitazione del vertice Ideale  - di matrice edipica  - che aveva strutturato i legami sociali e dato un senso alla vita delle persone.

Parte di te


Seguo da tempo le iniziative dell’Asit e quelle dell’amico Renzo Bonofiglio. Non ho delega alle politiche della salute o del welfare ma alla scuola e alla formazione della coscienza civica. Un campo che - spero non vi stupirà – impatta in modo centrale con le tematiche di questo nuovo centro di ricerche. Mi spiego meglio. La questione parte nel 2000. Per Invasioni, quell’anno si trattava di invasioni di filosofia, ospitammo i massimi filosofi dell’ospitalità (Jacques Derrida,. filosofo della traccia, dello straniero, etc.) e Jean-Luc Nancy autore di un libriccino intitolato L’intruso (e li intervistammo). La cosa non è per nulla astratta: Nancy ben presto si accorse che più che di migranti doveva partire dalla sua esperienza di trapiantato e che l’intruso lo aveva dentro di sé. E più di uno: prima un cuore di una giovane donna, poi un tumore causato dalle terapie anti-rigetto. Ecco in poche parole il grado zero dell’ospitalità. E al seguito le fantasie di immunitas che riguardano numerosi prodotti industriali che inneggiano al “rafforzamento delle difese immunitarie”,  la diffusione di virus nel web, certi salutismi esasperati  al limite della fobia. Parte di questi materiali sono oggi sul blog partedite.blogspot.com che è una delle riflessioni preliminari di questo assessorato, che implementeremo ben presto e sul quale attiveremo iniziative con Asit e questa divisione.

Inaugurazione del centro di ricerche Rene e Trapianti, Ospedale dell'Annunziata, 26 marzo 2012

Cosmai 27 anni dopo




Da qualche mese nella giunta municipale ho delega alla scuola e alla formazione della coscienza civica.
Delega è parola a me cara, interpreto il ruolo di assessore come un delegato, come chi riceve da qualcun altro, in questo caso il sindaco, un mandato ottico: vedo, sento, intervengo per conto di qualcun altro.
E ciò non toglie niente alla mia soggettività, alla mia formazione, al mio modo di essere, di proporre e di decidere. Aggiunge solo la questione della fiducia, l’attualità della questione del rapporto fiduciario. Sappiamo che è questione cruciale. I cittadini hanno sempre meno fiducia nelle istituzioni, ancor meno nella politica, ancor meno nei partiti. “Fiducia, questo difficile alfabeto”, diceva uno slogan di una bel manifesto di Paolo Palma, giornalista, scrittore e - un tempo - parlamentare. Era una citazione di una poetessa tedesca Hilde Domin, “fiducia, un abc difficile”.  
So poco di criminalità, di diritto  o di sociologia ma sono chiamata a occuparmi di questo abc, sono pre-occupata dall’ assottigliarsi di questo ABC, scritto con un tratto leggero, a matita, facilmente cancellabile.

Verifico, non è una teorizzazione astratta, che la sfiducia nei confronti delle istituzioni dello stato, è correlata non solo a una mancanza di cultura della legalità e alla nonchalance con le quali si diffondono pratiche illegali, ma al misconoscimento di ciò che è pubblico, dello spazio pubblico, della strada ad esempio. E’ correlata a una crescente aggressività che – registro – è un dato interclassista.
Non riguarda solo il precariato, il sottoproletariato urbano, i disoccupati e gli indignati che qualche buon motivo lo hanno per indignarsi. Riguarda anche la peggiore borghesia di sempre, quella supposta colta, quella supposta civile. Faccio due es.
(…)
I due aspetti del tempo, logico e etico. A prescindere da quello etico, Rita Scalise di “Ecologia oggi” sottolinea la diseconomia, l’algoritmo miope del gettare una carta dal finestrino, dal lasciare il sacchetto fuori dal cassonetto: qualcun altro dovrà raccoglierli. E’ banale, ma in pochi sembrano accorgersene.
Ecco dunque il senso di failafila.blogspot.com
Imparare a fare la fila, vuol dire cimentarsi con questo ABC.
E poi, oggi s’inaugura l’ora legale. La contrapposizione a l’ora solare occulta la letteralità del sintagma.
E’ arrivato il momento, soprattutto per la Calabria, che l’ora sia legale per davvero.

(si tratta di una scaletta per un intervento a cui ho rinunciato, dopo l’intervento toccante di Silvana Palazzo Cosmai)
 24 marzo 2012, chiesa di Santa Maria madre della chiesa, nei pressi della casa circondariale, Cosenza

Di la dallo specchio


Alfredo Pirri, "Passi", Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma (dal 17 marzo 2012)



Un po' per antifrasi, sfogliando il libro di Giacomantonio, mi vengono in mente i "paracarri" le sculture di Pietro Consagra posizionate all'inizio del MAB in piazza Fera/Bilotti.
Sculture frontali, come la citta' sognata, mitica, utopica, cui l' artista ha sempre guardato per la sua crociata contro un certo tipo di architettura moderna, che escludeva il connubio fra urbanistica, filosofia, scultura e poesia. Questo della Città frontale e' stato un po' il chiodo fisso di Consagra. Che, nel ' 69, ci scrisse un libro (De Donato). Citta' frontale, scultura frontale: che cosa vuol dire? L' artista ha abbandonato la consueta maniera di guardare una scultura da tutti i lati, preferendo una visione frontale. Da qui, una sorta di bassorilievo vicino alla pittura.
I punti di vista sono tanti perché ognuno di noi ne ha uno, vi rimane attaccato e non accetta di cambiare posto …. per guardare da un’altra visuale.
Simone Weil, mistica e matematica, in modo ancora più radicale, ci ricorda che "il punto non è di vista".

Nell'attimo fuggente, l'indimenticabile film di Peter Weir del 1989,  l'insegnante invita i suoi studenti a guardare il mondo da una prospettiva diversa da quella usuale e li fa salire coi piedi sulla cattedra.


Flavio Giacomantonio si situa oltre lo specchio, delle ipocrisie, della vanità e delle convenzioni.  Anche questa è una mossa da educatore. Di recente ho proposto al mio sindaco, che mi richiedeva un'azione di sensibilizzazione nei confronti della strada e degli spazi pubblici, una citazione che credo sia di Maurice Blanchot: "il cielo comincia all'altezza delle caviglie". Più che una metafora si tratta di uno spiazzamento derivante da un cambio di punto di vista. E' come se ci sdraiassimo a terra, come se posizionassimo una telecamera a terra, uno sguardo dal basso verso l'alto e non viceversa, dall'alto in basso, come troppo spesso succede.

Presentazione di “Di là dallo specchio. Zibaldone di emozioni e impressioni” di Flavio Giacomantonio. Venerdì 2 marzo 2012, “Scrittori al parco degli Enotri”, Rosario di Mendicino.

Quello che ti entra nella testa


Buongiorno,
solo due parole per portare i saluti dell’amministrazione comunale. Non mi dilungherò sulla questione della fuga dei cervelli, di cui tanto si parla senza che mai concretamente nulla avvenga per arginarla. Non parlerò neanche da calabrese, perché non lo sono. Sono una specie di emigrata al contrario. La dottoressa Savaglio, da Cosenza, è emigrata verso l’America, la Germania. Io sono romana di nascita ma ho vissuto e studiato a Parigi, dove mi sono laureata e a Madrid, per giungere poi casualmente e inaspettatamente a Cosenza. Quando ero in procinto di partire (avevo avuto un contratto all’Università della Calabria) gli amici e i parenti erano in forte imbarazzo. Non sapevano se complimentarsi  o rammaricarsi. Della serie: complimenti, così giovane, già vai a insegnare all’università e poi… certo… a Cosenza… qualcuno mi disse: a Cosenza?? Ma lì c’è la Salerno-Reggio Calabria! Inutile dire che invece ho trovato una città ospitale e accogliente, tanto che ormai sono qui da quasi 15 anni. Ovviamente, sempre a contratto, precaria.
Conosco il mondo universitario per averlo respirato in famiglia, mio padre è un matematico in pensione, ha insegnato in Italia, dove non ha fatto carriera e all’estero dove invece è stimato e apprezzato. (…)
Quello che colpisce è la distanza abissale nella gestione del quotidiano. In un’intervista al corriere della sera Sandra Savaglio fa un esempio lampante: se ho bisogno di una penna in Italia devo compilare un modellino, in America apro un armadietto e me la prendo. Il problema è che con l’amicizia, la raccomandazione, c’è chi avrà la penna senza bisogno di compilare il modellino. E così si è sempre alla ricerca della via più breve, del sotterfugio. Il concorso truccato – che ormai non desta neanche più scandalo – si pone sullo stesso piano.  Cioè a dire, che occorre partire dal basso e cercare di modificare piccoli comportamenti quotidiani.
Non abbassare la guardia, indignarsi almeno un po’, cercare di contrastare gli ostacoli e i piccoli furti quotidiani, di  non far prevalere quell’atteggiamento miope che a Napoli si riassume nell’interrogativo “chi m’o fa fà”, quella saudade che a Cosenza si definisce “vilienza”. Sapendo che i tempi del cambiamento sono piuttosto lunghi e che difficilmente saremo noi i fruitori di un quadro modificato favorevolmente in termini di civiltà dei comportamenti. Pronti a cogliere una chance (alludo al progetto dei  maestri di strada nei quartieri di Napoli) …confidando in ogni caso in un assunto di base, che è ciò che mi sono sentita di scrivere su questa bandana: “quello che ti entra nella testa nessuno mai potrà levartelo”. Che volentieri doniamo a Sandra, che è un’ottima testimonial.



(Sandra Savaglio incontra gli studenti dell’Istituto “Lucrezia della Valle”, Cosenza 29 febbraio)


decisamente non siamo al centro dell'universo




muovi il cursore da destra a sinistra e viceversa


ancora questioni di scala

Dentro le quinte




Siano abituati alla frontalità. A scuola, davanti al televisore, a cinema, a teatro, dinanzi a un quadro o a una scultura (pensate a quelle di Consagra in Piazza Fera/Bilotti). Buona parte della nostra vita si svolge frontalmente. Ci sono questioni da affrontare, da prendere di petto, anche le lezioni a scuola sono dette "frontali". E' un punto di vista che ha il suo controcampo correlato: davanti e dietro le quinte. O si è spettatori o si è dietrologi. O passività o gossip. "Dentro le quinte" invece è tutta un'altra cosa.



E' una esperienza immersiva, come nei videogiochi di nuova generazione e senza mettere gli occhialetti del 3D, la macchina teatrale si lascia scoprire, si mostra per quello che è: finzione vera.
Siamo nella sua pancia, all'interno del marchingegno. Questa visione da un punto di vista altro consente di mettere l’accento sul significante, piuttosto che sul significato e per una volta ci siamo occupati del mezzo e non del messaggio”.

(Open day, Teatro Rendano, 1 marzo)

Maschere di carnevale



E’ carnevale, ma io sono qui come persona e non come maschera.
Maschera e “persona” – attraverso una radice etrusca (phersu) – sembrano essere la stessa cosa, è la stessa parola. E la cosa ci complica non poco la faccenda, anche nel caso – nel presentarmi – volessi  levarmela.
A chi mi rimproverò, a pochi giorni dal varo della giunta municipale, di essere “una figurina sbiadita”, moglie o parente di qualche uomo importante (e proprio non è il mio caso), ricordai mestamente (ma grazie a una battutaccia di Orson Welles) le tante maschere, le tante persone che una persona mediamente è. Italiana e francese, traduttrice, docente precaria all’Unical, come tanti, con scarsissime possibilità di carriera, madre di una vispa bimbetta di sei anni, etc.
Da qualche mese ho dunque delega a occuparmi di questioni educative e scolastiche, della città a misura di bambino, della formazione del senso civico e della cittadinanza attiva. Sottolineo “delega”, che è parola nobile e pregnante. L’assessore è un delegato, riceve un mandato (Derrida lo definì “mandato ottico”, ma è anche acustico e comunque multisensoriale), da qualcun altro. Ad esempio, un sindaco.  Questa riflessione introduce una ulteriore complicazione in termini di defilé, di sovrapposizione di maschere. In pubblico, nell’agire amministrativo, sono maschera di un sindaco, parte di una giunta. Tutto ciò non mi espropria di nulla, visto il legame fiduciario, ma sto per qualcun altro in uno scivolamento metonimico che è la persona “assessore”.
La politica più in generale è centrata sulla delega. E vedete cosa succede con un parlamento di nominati buona parte dei quali non risponde né agli elettori né a chi lo ha nominato o delegato.
Sarò forse un assessore tecnico? Né tecnico, né politico, ho conosciuto il sindaco nel momento del conferimento della delega, sulla base di un curriculum che spazia nel precariato scolastico e universitario e di un suggerimento di chi mi conosce da tempo. Responsabilmente, a queste due persone non potrò far fare brutte figure.
Delegata e responsabile, dunque.
Per prima cosa ho registrato l’emergenza educativa. E non solo nelle scuole. Fare la fila è un concetto sconosciuto nei nostri umani cortili. I sacchetti fuori dai cassonetti, le cacche dei cani mai raccolte, cicche cartacce buttate dal finestrino, la strada è evidentemente terra di nessuno. O di qualcuno, che si crede un dominatore dell’universo, che impegna inutilmente gli incroci e che non fa passare nemmeno il presidente della Repubblica, che si ferma in seconda e terza fila o ti affianca per profferire quel tristemente celebre “ohi frà chiracosa tuttappò”.
Una strada tutta in salita per chi ha delega alla formazione del senso civico. Ma era solo l’aperitivo.
Uno dei primi atti che ho dovuto affrontare è stato l’accorpamento degli istituti scolastici. Si trattava di passare dagli attuali 10 istituti a 5 o 6 istituti comprensivi con una soglia minima di 1000 studenti.
Un discutibile lascito del ministro Gelmini, un provvedimento di razionalizzazione con ricadute sulle direzioni didattiche e sul personale Ata, non certo sugli alunni. Liberi di iscriversi, di essere iscritti nella scuola che meglio aggrada. Cosa non è successo! La mascherata della continuità educativa, poiché non aveva senso accorpare due istituti – per quanto vicini – di 1000 e 600 ragazzi, ha fatto sì che si raccogliessero firme di domenica in una scuola straordinariamente aperta.
Ho scoperto così l’aggressività, il gregarismo e il bullismo di un folto gruppo di genitori capitanato da un direttore didattico con qualche serio problema caratteriale.
Scenario analogo  tra gli strati più popolari: i facinorosi e gli arroganti sono presenti in tutte le classi.
C’è una scuola nelle vicinanze della palestra dei Casali, che non è una scuola, un seminterrato umido e triste per il quale l’amministrazione paga pure un canone di locazione. A pochi metri, dall’altra parte del fiume, sorge invece il plesso più bello della città. Appena restaurato, luminoso, attrezzato, bellissimo. …
Come assessorato abbiamo in questa direzione individuato alcune linee guida per affrontare un’emergenza educativa che si registra dunque a tutti i livelli, e va ben al di là del fenomeno della dispersione scolastica: cultura dell’ascolto e del riciclo, cultura dell’attesa e del senso civico, cultura dell’adozione e della donazione che corrispondono a tre blog che intendono porsi come strumento di dialogo e di confronto con il mondo della scuola, con le famiglie, con i cittadini tutti
C’è poi un quarto blog, dedicato all’emergenza educativa in senso stretto e che presenta un progetto legato all’ascolto, che ha l’ascolto come base e come fine.
Non sarà il Mozambico, la Somalia, l’Etiopia o il Bangladesh, ma il Mezzogiorno d’Italia registra una diffusa emergenza educativa. Ciò che impietosamente fotografava lo studio Ambrosetti nel 2008 ("Il sistema educativo in Italia: sei proposte per contrastare l'emergenza", Forum The European House-Ambrosetti, Villa d'Este, settembre 2008), conserva attualità e crucialità per gli operatori della scuola che si muovono in un orizzonte meridionale.
“Lo scarso rispetto delle regole di convivenza civile, l'affievolirsi della fiducia nella giustizia e nelle istituzioni, l'aggressività verso le forze dell'ordine, le difficoltà della scuola nel valorizzare le attitudini degli studenti, il disvalore spesso trasmesso dai media sono alcuni sintomi che il nostro Paese evidenzia e che fanno echeggiare l'idea di una grave emergenza educativa e formativa, contribuendo alla perdita di terreno nei confronti degli altri Paesi avanzati e di quelli emergenti”. Magra consolazione il dato sull’abbandono secondario che vede protagonista il Nord (ad esempio Lecco – dopo i due anni di superiori – registra un abbandono del 20,9% , Cosenza del 8,1%), col record negativo degli istituti professionali di Novara col 46,8 %. Pericoloso interpretare il dato calabrese sulla dispersione scolastica come incoraggiante. Se è vero che le criticità dell’evasione scolastica sono limitate alle comunità Rom, non si può prescindere dal dato regionale dell’analfabetismo mai sradicato e della disoccupazione, vero e proprio incubatore per la microcriminalità e la criminalità organizzata.
Il discrimine non sembra più essere tra regioni del Nord e del Sud ma tra le diverse aree di una stessa regione o tra i vari territori di una metropoli. Il che pone maggiormente un problema legato alle migrazioni, di multiculturalità e integrazione tra etnie, tra rigurgiti razzisti e problemi di compatibilità culturale, con una radicale interrogazione sull’aspetto qualitativo del processo educativo. Questioni di civiltà dunque, di civismo e di senso della cittadinanza, di senso della giustizia e dello Stato, di senso del dovere, di rispetto delle regole, di pregiudizi e di maleducazione. “Senza precisi punti di riferimento, - continua il rapporto dello studio Ambrosetti - molti individui si rifugiano in un esasperato individualismo, si costruiscono le proprie regole e le proprie giustificazioni morali”.
Una deriva che si somma a un crescendo di debiti formativi che – una volta risucchiati nella formazione universitaria – finisce col porre più di una perplessità sul valore legale del titolo di studio.
Per un tentativo di uscita da questa “spirale viziosa”, Tool set si pone come momento teorico-pratico interdisciplinare, come luogo di testimonianza e di appuntamento negli anni a venire.
In questa prima edizione, inevitabili le condizioni materiali come punto di partenza, una riflessione sulla fisica dell’ascolto, vale a dire sulle condizioni (dis)ergonomiche della comunicazione verbale. Stesso discorso varrebbe sull’illuminotecnica: le aule, le classi, sono forse luoghi pensati per favorire l’apprendimento? Nel migliore dei casi si bada al profilo acustico dei materiali normalmente impiegati nell’edilizia per la realizzazione di pareti esterne, pareti divisorie, finestrature, porte, soffitti, al fine di isolare l’ambiente dalle fonti di rumore esterno. Nessun riguardo per l’ascolto in classe, con aule rigorosamente parallele, piene di superfici riflettenti, costruite con materiali fonoisolanti (ad esempio un muro massiccio con intonaco liscio) ma completamente prive di supporti fonoassorbenti (ad esempio, tende, materiali porosi, fibrosi, espansi), con pochi trascurabili arredi e oggetti alle pareti, immancabilmente posizionati senza distanziatori e intercapedini d’aria.
Così i bambini gridano e alle maestre viene il mal di testa, gli adolescenti urlano e minacciano e gli insegnanti rischiano il burn out.
I bambini gridano, le aule amplificano il rumore e alle maestre viene il mal di testa.



L'ipotesi di lavoro è dunque la seguente: (passo 1) una elementare introduzione all’ingegneria acustica applicata all’edilizia scolastica; (passo 2) una pratica di riciclo creativo - che riutilizzi imballi, materiali porosi e cartoni di grande formato - finalizzata alla realizzazione di oggetti funzionali, sul modello del diffusore a resto quadratico (o di Schroeder) e dei risuonatori di Helmholtz; (passo 3) introduzione all'elaborazione audio-psico-fonologica di Alfred Tomatis.
Una volta affrontato il grado zero della questione e indicato come ripristinare un ambiente acustico accettabile, tool set estrae i grimaldelli teorici.
Muovendo dall’elaborazione di Alfred Tomatis, l’otorino che dedicò le sue ricerche ai rapporti tra orecchio e cervello, il primo che utilizzò Mozart come una sorta di equalizzazione preliminare all’ascolto e all’apprendimento, in particolare delle lingue straniere. L’assunto di base dell’autore del metodo audio-psico-fonologico è il seguente: ciascuno di noi nasce in un particolare ambiente sonoro, che condiziona il diaframma selettivo dell'udito. Si tratta di una banda uditiva propria della lingua alla quale si appartiene. Per esempio, gli inglesi parlano tra i 2.000 e i 12.000 Hz, i francesi tra gli 800 e i 1.800 Hz, gli italiani fra i 2.000 e i 4.000 Hz. Di qui la difficoltà di entrare nelle altre bande uditive. “Se la lingua che vogliamo imparare usasse i fonemi della nostra e possedesse lo stesso ritmo, non avremmo problemi”. Le ricadute sono molteplici: da una diversa interpretazione dei disturbi legati alla scolarità (le difficoltà di lettura rimandano sempre a difficoltà d’ascolto), ai disturbi posturali e dell’età evolutiva.
Su un binario parallelo le teorie e la pratica di Edwin E. Gordon, conosciute come Music Learning Theory, un modo per sviluppare l’intelligenza musicale, per crescere con la musica, a partire – con una sintomatica convergenza con Tomatis – dall’età prenatale.
E poi l’esperienza del maestro ignorante di Jacotot (giusta l’associazione con quella di Don Milani e – se vogliamo – con quella di Fernand Deligny coi bimbi autistici), le mille orchestrine venezuelane di Abreu, i maestri di strada napoletani e molto altro.

In un approccio apparentemente eterodosso e laterale, che si rivela invece scientifico e materiale.
E proprio dalle condizioni materiali dell’ascolto muove la prima edizione di toolset, con uno screening audiologico che è partito in quattro istituti primari della città, nei quartieri in cui si registrano maggiori difficoltà di apprendimento e tassi di abbandono (Spirito Santo, Via Popilia, Via De Rada e via Milelli).

(da una conversazione nella sede del dipartimento Università e Cultura di FLI, 
Cosenza 21 febbraio 2012)

Nessuno è Stato




Non posso non tener conto del contesto. In questo caso:
-        Il circolo della stampa Maria Rosaria Sessa e il liceo Fermi, organizzatori dell’incontro;
-        Il luogo fisico, che è un luogo di cultura;
-        L’oggetto dell’incontro, che muove da un libro;
-        Le persone chiamate a interloquire: l’autore del libro  (che oltretutto è un amministratore, un sindaco), la direttrice della biblioteca, giornalisti e studenti.
Certo il sindaco si scusa per la sua assenza, ma non addurrò la scusa degli “impegni istituzionali”. Come sono gli impegni nel lessico cerimoniale e troppo spesso nelle cronache giornalistiche? Gli impegni – immancabilmente finiscono con l’essere “istituzionali”. Il contesto impedisce il ricorso alle frasi fatte e agli aggettivi autoadesivi: magari è fuori con il suo segretario di partito, oppure ha avuto mal di pancia, oppure ha accompagnato la moglie a fare la spesa o dal medico. Il sindaco non c’è, si scusa e mi ha delegata.
 Questo libro non merita parole di circostanza. Sono un assessore di questa giunta comunale, vale a dire che ho ricevuto una delega – Derrida avrebbe detto un “mandato ottico” – vedo per lui, sento per lui e oggi parlo per lui. Il concetto di delega è importante. Questo luogo che ci accoglie è un luogo di “delegati”, di migliaia di delegati: i libri vedono, raccontano, parlano di cose che non abbiamo visto perché ci precedono e noi vediamo coi loro occhi. Questo libro, ad esempio, parla di un fatto, lancinante, successo quando non ero ancora nata. In questo sono nella stessa posizione degli studenti del Fermi. Anche il libro di Fortunato Zinni è un delegato, si è delegato a raccontare, a consegnare alla memoria di chi non c’era (noi) lo start di una brutta stagione politica, quella cosiddetta della strage di stato (più avanti perderò ancora un minuto sul titolo del libro). Come intenderne la portata? Una semplice analogia, d’atmosfera: il crollo delle torre gemelle a New York? Eravate troppo piccoli, ma forse avete visto quella scena o perlomeno l’avete rivista in occasione del decennale. Nel 69 la televisione era in bianco e nero e c’erano solo due canali, ma la scena madre, l’impatto emotivo di quell’apocalisse, è lo stesso.
Solo che non ci fu rivendicazione (Bin Laden, etc), ma si aprì una lunghissima stagione di depistaggi e processi contraddittori. L’autore usa una figura retorica, l’ossimoro, per definire questa pagina della storia giudiziaria italiana, e parla di “ingiusta ingiustizia”.
Questo ossimoro nasce, per rimanere nel contesto della retorica, da un iperbato: il titolo del libro. NESSUNO E’ STATO rompe l’ordine naturale della frase attraverso un’inversione che enfatizza il secondo elemento rispetto al primo, dando luogo ad un’anfibologia, cioè ad una costruzione che si presta ad una doppia interpretazione: non è stato nessuno (l’assenza di un colpevole) ma anche l’assenza dello Stato, l’idea di uno stato che stenta a palesarsi. (…)

(sabato 21 gennaio, Biblioteca nazionale di Cosenza)

Il miglior dimensionamento di sempre



Ancora sulla questione degli accorpamenti scolastici

“Di cosa stiamo parlando?” è una domanda retorica che ha preso piede negli ultimi tempi. Di solito si accompagna a un tono di voce indignato e serve a introdurre una veloce esternazione: “è tutto sbagliato, è tutto da rifare”. Userò quella figura senza quel tono di voce, senza il punto interrogativo e senza parole di difficile comprensione per l’avvocato Paolini, per tentare di riepilogare le questioni in campo. Riordino, accorpamento, piano di dimensionamento: stiamo parlando di passare da 10 a “x” istituti comprensivi (infanzia, primaria e secondaria di primo grado) con una soglia minima di 1000 iscritti. Un compito complesso, che difficilmente può stare in una pagina di cronaca e che impegna questo assessorato da più di due mesi. A volte in piena notte mi capita si svegliarmi e di trovarmi a compitare 141 + 504 + 75… lo dico per rappresentare un lavoro intenso e difficile, fatto di continue riflessioni che mal si concilia con quella fotina, che di solito accompagna le mie dichiarazioni, e che mi ritrae più giovane e sorridente.
Per la definizione del piano ho incontrato prima i sindacati, ai quali è stato chiesto di proporre un loro piano e - collegialmente – i dirigenti, che hanno fatto pervenire i pareri dei relativi consigli d’istituto. Si è discusso di una prima bozza di accorpamento a sei istituti. I sindacati convergevano su questo assetto, i dirigenti hanno mostrato invece di preferire un’ipotesi a cinque, che abbiamo prontamente realizzato (ne abbiamo simulata anche una a quattro).
Ne ho parlato con diversi consiglieri comunali, senza distinguo maggioranza/opposizione, tra questi anche il consigliere Paolini, del quale ho accolto un prezioso suggerimento. 


Assieme al Sindaco, ho ascoltato i genitori, dirigenti e personale ATA delle scuole di via Roma. Ancora stamattina ho nuovamente incontrato un rappresentante del personale ATA. Tanto per far capire quanto mi ritenga superiore e infallibile, aperta ancora adesso ad ulteriori modifiche migliorative.
Un punto poco considerato è che i principali portatori d’interesse rispetto a una legge tesa a razionalizzare, sono  innanzitutto i dirigenti, gli insegnanti e il personale ATA, che subiranno in qualunque caso gli effetti del piano, in termini di spostamento fra le sedi di lavoro. I genitori invece, restano liberi di iscrivere i propri figli nella scuola che soddisfi le loro aspettative di istruzione e formazione, o semplicemente più comoda. Sono madre di una bimba di sei anni, che nella sua breve età scolare ha già cambiato tre scuole. C’è chi non è attrezzato per un sonnellino pomeridiano, c’è chi offre qualche stimolo in più, può poi capitare di dover cambiare casa e di cercare una scuola più facilmente raggiungibile. In ogni caso ho gratitudine per chi si è occupato e si occupa al meglio della mia piccola. Quanto alla continuità educativa, credo che bisognerebbe sviluppare alcuni strumenti, come ad esempio il diario di bordo, un documento che nei vari passaggi di classe e d’istituto accompagni, raccontandola, la vita scolastica dei bambini.
Alla complessità dell’operazione si sommano i fraintendimenti. “Classismo” non è una parola che appartiene al mio lessico. Al contrario, ho scritto, riferendomi ad un recente episodio che ha coinvolto una scuola di Casali, che la pigrizia e qualche pregiudizio prevalgono in alcuni frangenti, senza distinzioni di classe. Ho poi parlato di “integrazione fra i diversi quartieri, di tutela delle scuole in decrescita e di sottoutilizzo di plessi accoglienti e funzionali”.
Ricapitolo: ipotesi a sei accorpamenti, margini troppo risicati rispetto al valore di 1000 iscritti, con il rischio di dover modificare gli assetti il prossimo anno. Ipotesi a cinque: maggiore stabilità.

In tutti i casi, l’accorpamento tra il 3° circolo (quasi 600 alunni) e la scuola Media Zumbini (quasi 1000, di cui un centinaio provenienti dalla primaria di via Roma e il resto da altri quartieri della città e dall’hinterland), che godono entrambe di un’ottima reputazione, pone un problema di bilanciamento con  altri istituti della città che si candidano a nuovi futuri riordini. L’Amministrazione comunale si sta sforzando di tener conto di tutti i fattori in gioco, al fine di produrre magari non “il miglior dimensionamento di sempre”, ma una proposta che sia quanto più possibile equa ed omogenea. 

30 settembre 2011

Accorpamenti



Cari genitori della scuola “Plastina Pizzuti” e della scuola media “Zumbini”, ciò che contestate a una proposta (e sottolineo proposta, che sarà esaminata dagli uffici competenti della Provincia e della Regione Calabria) di riorganizzazione della rete scolastica potrebbe rappresentare un contributo alla cosiddetta dialettica democratica se solo contenesse qualche argomentazione e se non avesse il tono della messa in mora e della minaccia.
Tono di voce stranamente coincidente con quello delle esternazioni di chi amabilmente mi ricorda la presenza di alcuni genitori magistrati e pure qualche entratura negli uffici regionali, annunciandomi telefonicamente che “la guerra è aperta”. Guerra da ieri palesata da una raccolta firme alla “Zumbini” straordinariamente aperta di domenica. Guerra centrata, come è ovvio, sulla disinformazione e su qualche errore logico. Non è strano che i genitori di una scuola secondaria di primo grado guardino indietro (all’ingresso, alle scuole primarie) invece che al futuro (alle superiori), che si preoccupino del passato invece che di ciò che sarà? Basterebbe questa semplice osservazione per liquidare la questione come scorretta e pretestuosa.
Ma questa è una città pacifica e tra le mie deleghe c’è quella della formazione della coscienza civica. “Guerra” non a caso è il correlato della velocità nella elaborazione del filosofo-urbanista Paul Virilio, l’autore di “Velocità e politica” e di “La città panico. L’altrove comincia qui”. Questo ancoramento teorico mi consente di introdurre due brevi considerazioni sulla de-spazializzazione delle città e contemporaneamente sulla claustropolis, la prima misconosciuta, la seconda messa in scena appieno. A cosa risponde il principio di prossimità/viciniorità nella nostra epoca, chi è vicino, chi, cosa è lontano?  Vien da osservare che pur a non voler vedere la rivoluzione digitale in atto, il testo di Joshua Meyrowitz, “Oltre il senso del luogo. L'impatto dei media elettronici sul comportamento sociale”, è disponibile in traduzione italiana già dal 1993.
Altrimenti detto, i premurosi genitori con la carta bollata e alcuni direttori didattici dovrebbero porre la questione del gap tecnologico, si dovrebbero preoccupare che l’alfabetizzazione informatica non abbia alle elementari il sembiante del dettato, si dovrebbero fare portatori di istanze che guardano alla connettività, al wi-fi e magari alla banda larga. E invece – constatazione davvero disperante – strillano perché sognano un tapis roulant che conduca i loro figlioli dalla primaria di via Roma alla griffatissima e sovradimensionata Zumbini. Magari con annesso servizio di security. Ma anche qui non s’intende, salvo retrocessioni e direzioni paradossali del tapis, cosa vogliano i genitori della “Zumbini”.
 Una miopia che avevo avuto già modo di assaggiare in altro quartiere, a Casali, con genitori della piccola scuola materna riottosi e resistenti a un trasferimento a 300 metri di distanza (con scuolabus gratuito) nella scuola d’infanzia dello Spirito Santo, che oggi è forse il plesso scolastico più bello e accogliente della città. Scenario analogo per chi dalle primarie di via Roma dovrà percorrere addirittura 500 metri per recarsi a piazza Cappello.  Precariato, piccola borghesia e upper class evidentemente accomunati dalla pigrizia e da qualche pregiudizio.
Cosa è vicino, cosa è lontano, oggi, in una città comunque piccola e senza un centro non delineabile univocamente? Dibattito reso ancora più radicale dagli studi sociologici e urbanistici per i quali  “la città non esiste più da cinquant'anni perché è scomparsa la differenza tra contado e centro” (Richard Ingersoll). Flussi, nodi, spazi odologici, studio dei percorsi, mappe mentali (nozioni preziose e acquisite già dai tempi di Kevin Lynch), ridiscussione delle nozioni di centro e periferia, città difesa, città diffusa, “sprawltown”  (“sprawl” = sdraiata), la prossimità invocata maschera altre questioni, le stesse che hanno portato al crollo d’iscrizioni nella scuola di via degli Stadi: lo spettro dei bimbi rom, fantasmatiche della diversità, pratiche camuffate di esclusione.
Niente a che fare con la continuità didattica. Tema particolarmente caro a questo assessorato e sul quale c’è grande ritardo. Si vedano ad esempio le esperienze consolidate nelle scuole di Verona e di Firenze, a partire dalla scuola dell’infanzia. E’ il caso del “diario di bordo” e del diario personale.  Il lavoro di documentazione da consegnare alla scuola successiva, al fine di favorire un passaggio morbido, senza timori ed ansie provocati da salti bruschi da una istituzione all’altra. Si tratta della scrittura degli educatori, ma nei casi più significativi implementata anche dai genitori, che ha per oggetto la propria esperienza e che assolve alla funzione di “costruire un luogo da cui osservare i vissuti, un luogo in cui ritrarsi di tanto in tanto dalla scena per osservarla da lontano; è proprio questa condizione del guardare a distanza che ci fa stare con pienezza dentro la scena” (Mortari, 1998).
Ecco, spiace proprio che protesta e petizione mostrino scarso interesse per il futuro dei ragazzi, tutelando tic, pigrizie e abitudini dei genitori, prendendo a pretesto una continuità educativa espressa in pochi centimetri oltre il proprio naso.
Non mi ero illusa sulla facilità di un compito di riorganizzazione della rete scolastica che – visto il contesto – ha quantomeno il pregio di alimentare un minimo di dialettica, anche se nervosa. E’ auspicabile che in seguito i cittadini si sforzino di trovare uno sguardo lontano, che capiscano che una scuola insiste in una città e che questa città – grazie al sindaco Mario Occhiuto e alla nuova amministrazione – ha al centro dello sviluppo urbano un progetto culturale, in grado di unire “beni culturali” ed “attività culturali”. Che imparino ad apprezzare la positività di una modalità di pianificazione strategica che pone al centro l’integrazione fra i diversi quartieri e la tutela delle scuole in decrescita, nel tentativo di contrastare la formazione di ghetti da un lato e di istituti sovraffollati dall’altro, come pure il sottoutilizzo di plessi ristrutturati, funzionali e accoglienti. L’augurio è di immaginare insieme una città che rimuove  barriere, dando senso a viale Mancini (che ha già fatto crollare il muro che separava via Popilia), che guarda a Nord e perlomeno fino all’università con una mobilità sostenibile. Che suggerisce  nuovi percorsi da piazza Bilotti, verso il museo all’aperto, verso Sud, verso i teatri e i musei, lungo un fiume che presto si arricchirà di altri luoghi d’arte e della contemporaneità. 

il Quotidiano della Calabria, 28 novembre 2011

Virgolette


Gentile direttore,
caro Clausi,
la cronaca di Cosenza di oggi dà alla mia conferenza stampa itinerante ampio risalto, quasi due colonne e ben quattro foto. Conosco i limiti di spazio e sinceramente ringrazio. Vorrei ringraziare anche la giovane xxxxxxx  yyyyy che, interessata e partecipe, mi ha accordato tempo e sincera curiosità. Vorrei però (c’è sempre un però) invitarvi a maggiore sorveglianza sull’uso dei virgolettati che spesso vengono usati con eccessiva disinvoltura. Nulla quaestio se fossero commenti, ne intendo l’entusiasmo e le finalità tutte positive. Purtroppo però il 95% delle frasi a me attribuite non sono mai state da me profferite. E non sono sottigliezze, sulle quali avrei volentieri sorvolato. E’ proprio che dall’incipit all’excipit quel testo non mi appartiene. Non sono così  perentoria: “Da quest’anno si cambia aria, si respira innovazione. Non ha più senso parlare di pubblica istruzione …”. Ohibò! Ucciderei un amministratore così tronfio (e pure così stronzio). Allo stesso modo, pur parlando di scuola, città e cittadinanza attiva, non mi sono mai riferita ai bambini come “piccoli cittadini”, ruffianeria da me aborrita. Tanto meno la visita alla biblioteca nazionale è “per educarli al culto del libro”. Insomma, è la vecchia discordanza tra una significazione benevola e il piano della significanza. Taglio corto, in allegato poche righe di rettifica ma, vi prego, sorvegliate sulle virgolette.

(lettera a il Quotidiano della Calabria, 16 settembre 2011)

L'inferno di Don Giacomo


Inutile dire che sono onorata di essere qui a presentare il libro di don Giacomo Panizza. Dirò subito che, come molti, non conoscevo la storia di Don Giacomo prima di vederlo a Vieni via con me. E come molti, sono rimasta colpita dalla grazia, dalla riservatezza, si può dire? Dalla timidezza: di quest’uomo che si confronta tutti i giorni con la ‘ndrangheta e che tuttavia si emoziona davanti alle telecamere. E’ l’uomo che in parte ho ritrovato nel libro che presentiamo qui oggi, quello che, commenta: p. 97 . Dico in parte, perché dall’intervista di Goffredo Fofi viene fuori anche un altro uomo, come è giusto che sia, con una grinta e una determinazione assolutamente fuori dal comune.
Dicevo che mi aveva colpito, dell’uomo che ho visto in televisione, la timidezza e la grazia. Del suo elenco, invece, mi ha colpito, per motivi assolutamente personali, soprattutto l’ultimo punto:
“Mi è piaciuta l’idea di emigrare a rovescio, di andare a conoscere limbo e inferno, purgatorio e paradiso; la mia vita con altri, altrove”.
Anche io sono emigrata al rovescio. Io sono romana di nascita, ho vissuto tanti anni a Parigi, per studio e lavoro ho vissuto a Madrid, a Trieste, finché un giorno, 13 anni fa, mi hanno proposto un contratto di insegnamento all’Università della Calabria. Ricordo che gli amici e i parenti erano titubanti, incerti se congratularsi per l’incarico o compiangermi perché comunque era in Calabria… “Brava, complimenti, certo… a Cosenza…”. Qualcuno commentò: “A Cosenza?” “Ma lì c’è la Salerno-Reggio Calabria!” e con questo aveva detto tutto.
Ma come mi piace spesso raccontare, quando sono arrivata a Cosenza, dopo tanto viaggiare, ho avuto l’impressione di essere “tornata a casa”. E da allora vivo anche io la mia vita con altri, altrove.
Ma che cos’è questo altrove?
In D’ailleurs Derrida, film dal titolo di difficile traduzione (D’altronde, d’altra parte, da altrove…) Jacques Derrida dice che
L’altrove, anche quando è molto vicino, è sempre l’al di là di un limite ma in sé, si ha l’altrove nel cuore, lo si ha nel corpo. Ed è questo che vuol dire l’altrove, l’altrove è qui, se l’altrove fosse altrove, non sarebbe un altrove.
Ecco, Don Giacomo l’altrove ce l’ha nel cuore, altrimenti non avrebbe scelto di vivere la sua vita con altri, con l’altro, direi, con il diverso, altrove.
Allo stesso modo, inferno purgatorio e paradiso che lui ha conosciuto qui – cioè altrove, ma l’altrove è qui – sono una stessa e unica cosa. In questo Panizza è spinoziano.
Il libro si divide in due parti: una prima parte, autobiografica, in cui Panizza racconta il percorso esteriore e interiore che dalla fabbrica lo ha condotto al seminario e poi a Lamezia. Diciamo una parte che guarda al passato; una seconda parte, se così si può dire, più saggistica, anche se la scrittura è sempre fresca e diretta, mai noiosa – anche qui sempre sotto forma di intervista – che guarda al futuro chiedendosi: dove va la Calabria?
E l’attraversamento di inferno, purgatorio e paradiso: - anzi, nell’ordine. purgatorio, inferno e paradiso – e questa è una domanda che vorrei porre all’autore: quest’ordine è casuale o ha un significato preciso? Ora, siccome il lettore ha sempre il vizio di interpretare e questo è un vizio italiano in particolare, tutto scolastico (adesso vorrei dire due parole sulla scuola a cui è dedicato un capitolo della seconda parte del libro), la domanda classica del professore era: “che cosa ha voluto dire l’autore?” come se dietro ogni verso di poesia, che magari era pura musicalità ci dovesse necessariamente essere chissà quale significato recondito… ecco, vi do l’interpretazione che mi piace dare di questa scelta… non distruggetemi tutto l’impianto ermeneutico. Don Giacomo sa che inferno e paradiso non esistono (così come sa che l’altrove è qui). Sa che l’impegno ad esempio nel contrasto alla mafia in senso lato – questo don Giacomo l’ha capito bene e lo evidenzia in molte parti del suo racconto: la ‘ndrangheta non è tanto e non è solo quella istituzionalizzata, per cui ci sarebbero “i buoni” e “i cattivi”, altrimenti sarebbe facile da combattere. Il problema sta piuttosto in tutto quello che c’è intorno: i vigili del fuoco che rifiutano di trasferirsi nel palazzo dei Torcasio, per paura, e la paura è facilmente comprensibile e difficilmente condannabile; quello che non paga il parcheggio innescando di fatto un meccanismo, una dinamica di potere per cui chi comanda non paga e dunque chi non paga comanda.
Il confine tra l’atteggiamento omissivo e quello mafioso è spesso labile e in questo senso lo è quello tra purgatorio, inferno e paradiso. Nelle sue analisi Panizza non è mai tranchant e pure quando lo è lascia sempre intravvedere la possibilità di un’altra possibile interpretazione: v. Mancini, p. 136.
Questa visione del mondo e delle cose è quella che Don Giacomo mette in opera nel lavoro quotidiano con i disabili, con i diversi. Mi viene in mente una celebre scena di non so più quale film di Nanni Moretti in cui lui si sforza di far capire che “Noi siamo diversi ma siamo uguali, siamo uguali ma siamo diversi” e l’unico modo che trova per farlo è urlare sempre più forte ripetendo questa frase, come se un tono di voce sempre più alto la rendesse più comprensibile. Panizza racconta soprattutto la difficoltà a trasmettere questo messaggio. Mi ha colpito a questo proposito un episodio, in cui Don Giacomo racconta che qualcuno gli aveva offerto un proiettore per guardare i film nella sede dell’associazione e lui ha rifiutato questo regalo, ovviamente offendendo chi glielo aveva offerto, perché guardate che i disabili hanno voglia di uscire e di andare al cinema come tutti gli altri e non di rimanere chiusi a guardare i film nella sede dell’associazione. Solo così si crea vera integrazione e si esce dall’ottica assistenzialistica: se io ti regalo una carrozzina, non ti sto aiutando, perché la prossima volta che ne avrai bisogno dovrai tornare da me e chiedere: noi dobbiamo creare le condizioni affinché la carrozzina sia un tuo diritto e tu non debba chiedere a questo o a quest’altro.
Dicevo che Don Giacomo Panizza sa che inferno e paradiso non esistono, ed era una provocazione. Nelle filosofie orientali esistono il nirvana e il samsara: il nirvana corrisponde a ciò che i cristiani chiamano paradiso, la salvezza; mentre il samsara è il contrario della salvezza, è la vita così com’è, promessa alla sofferenza e alla morte. Ma se si approfondisce un po’ si scopre che per i buddisti non c’è nessuna differenza tra le due cose e l’unico modo per passare dall’una all’altra è comprendere che esse sono una stessa e unica cosa: dicono: finché fai una differenza tra il samsare e il nirvana sei nel samsara. Per rimanere nella filosofia e nella tradizione occidentale giudeo-cristiana, è quello che diceva Spinoza, per questo accusato di ateismo: realtà e perfezione sono la stessa cosa, natura naturans e natura naturata sono solo due modi di un’unica sostanza, e la sostanza è Dio. E la beatitudine non è un’altra vita, ma la verità di questa vita qui. L’inferno e il paradiso sono un’unica e stessa cosa: il mondo. Per questo concludo, canonicamente, citando le ultime righe del libro. A Goffredo Fofi, che gli domanda una ragione per cui amare la Calabria o detestarla, Panizza sposta l’asse e risponde che lo ha cambiato la Calabria tutta: le sue povertà e le sue ricchezze, i suoi pericoli e le sue opportunità, i suoi schemi di pensiero espressi e quelli incomprensibili… “Da qui ho vissuto il mondo, non solo ciò che chiamano periferia”
(“Libri in sagrato”, conversazione con Giacomo Panizza, S.Pietro in Guarano, 2 agosto 2011)